Patrizia Comand – Una Mascherina vi salverà…

Dal 1 luglio al 30 settembre 2022
Spazio BIG Verbania “Big Emotion”
Corso Tonolli, 42
28922 Pallanza VB
10:00 – 13:00
15:00 – 18:00

La mostra

Esposizione dal primo di luglio al 30 settembre 2022

Di mascherine e di maschere, di volti e di identità perdute

a cura di Sandro Parmiggiani

Non sorprende che Patrizia Comand si sia avventurata, nei due tormentati anni, 2021 e 2022, che ci siamo (forse) lasciati alle spalle, in un viaggio pittorico attorno al tema della “mascherina”, termine su cui a lungo, sotto la nuvola nera della pandemia imperversante, si è quotidianamente discettato, a partire dalle caratteristiche e dall’utilità. Nei primi tempi, quand’era arduo reperirla, la mascherina poteva essere assimilata a una sorta di araba fenice: “Che vi sia, ciascun lo dice; Dove sia, nessun lo sa”. Del resto, Patrizia si è sempre dimostrata sensibile, nella fedeltà a uno stile, il suo, del tutto peculiare nel panorama della pittura contemporanea, ad immergersi nelle questioni urticanti dell’attualità. Mi limito a ricordare due grandi, memorabili suoi dipinti: da un lato, la Nave dei folli – una rappresentazione allegorica, calata nella contemporaneità di personaggi e tipologie umane assai riconoscibili, della “Stultifera Navis” di cui si narra in Das Narrenschiff ad Narragoniam (La Nave dei Folli diretta alla Terra dei Folli), l’opera dell’umanista e teologo Sebastian Brant, pubblicata a Basilea nel 1494 –, un quadro di 205 x 860 cm cui ha lavorato tra il 2013 e il 2014; dall’altro lato, E giustizia sia!, una tela di 140 x 200 cm realizzata nel 2021, denuncia civile di una situazione, quella della giustizia italiana, irrimediabilmente bloccata e malata. 

È nello stesso 2021 che Patrizia avvia la serie dedicata alle mascherine: trenta dipinti di dimensioni 50 x 40 e 60 x 50 cm, come sempre preceduti – così era avvenuto per i due grandi quadri appena citati – da disegni accurati, che confermano la padronanza e la libertà di un segno, il suo, che descrive, circoscrive e poi s’invola, mai temendo di avventurarsi in terre nuove. Nelle opere di questo ciclo la felicità del segno di Patrizia viene messa al servizio di alcune componenti particolari: non solo la foggia fantasiosa delle mascherine, sulle quali ritorneremo, ma le acconciature delle donne, con i capelli che s’abbandonano ai riccioli, alle volute di pettinature che mai sembrano accontentarsi di un qualche canone della moda, per sovvertirlo e innovarlo, gli abiti indossati – peraltro visibili solo nella parte superiore del busto, con spesso un’invitante scollatura in cui bustini e corsetti poco occultano, lasciando intravvedere i seni opimi –; talvolta, le dita ammonitrici che paiono invitare a soffermarci su un dettaglio importante che potrebbe sfuggirci. Le figure femminili della Comand non sono, da sempre, schiave di un qualche turbamento anoressico: i corpi (gambe, braccia, busti, seni) sono pieni e ben torniti, secondo un canone di bellezza che solo nell’ultimo decennio anche la stessa moda è parsa volere riabilitare: la carne conserva, sempre, nelle sue opere, una sua peculiare capacità di attrazione. C’è pure, in molti di questi sguardi, una sorta di malizia, certo da non intendersi come aperta allusione all’invito a un coinvolgimento in un qualche gioco erotico-sentimentale, ma come consapevolezza, che talvolta sfocia nel compiacimento, delle possibilità che si aprono, anche di avventura culturale, se si corrisponde a quello sguardo. E c’è, sempre, una maestria della Comand nel governare i rapporti tonali: tra i colori di fondo del dipinto – talvolta lei ha scelto che le sue teste si staglino su un quadrato colorato –, e quelli dei capelli, degli abiti indossati e delle mascherine: tutto concorre a dare vita a un’atmosfera avvolgente di seduzione.

Ci sono, anche in questo ciclo delle mascherine, memorie e citazioni dirette di figure femminili che Patrizia ha raccolto, non solo da Botticelli al Rinascimento, ma dentro la variegata storia della pittura. E ci sono, nella conformazione di queste seducenti mascherine, tramandi floreali che avrebbero affascinato Arcimboldo – già tra il 2003 e il 2005 Patrizia dipinse cumuli di pesci andatisi a issare sui cappelli a larghe tese di qualche sua figura femminile –; quelli che i grandi interpreti della pittura di fiori del Seicento (soprattutto nei Paesi Bassi e in Italia) coltivarono con dovizia, e quelli gli illustratori (pensiamo a Redouté), gli impressionisti e alcuni artisti del Novecento, hanno lasciato in eredità al nostro sguardo. Insomma, le mascherine di Patrizia Comand sono quasi sempre serti, viluppi, piccole ghirlande di fiori e di foglie, che talvolta si sovrappongono o che prorompono e prolungano la tradizionale maschera che copre solo la bocca e il naso. In qualche caso, le mascherine create dall’artista evocano le finezze di qualche artigiano veneziano, con prolungamenti a coda di rondine; in un dipinto (La coccinella) sono nastri intrecciati, che paiono essere stati rubati da quelli che adornano la scollatura dell’abito sottostante. 

Vivissimi sono gli occhi di queste donne: guardano noi che le stiamo osservando o seguono il librarsi di una farfalla o di una vespa, che sono andate a posarsi sulla mascherina di una foggia così inconsueta. In verità, Patrizia confessa che, nel dipanarsi del ciclo, nonostante l’evolvere della pandemia, tra speranze e ricadute in un senso di impotenza quando sempre più lontana appariva la luce liberatoria, il tono non si andava facendo più disteso, ma introiettava qualche elemento di drammaticità o di angoscia. Ecco la compresenza, sui due lati della mascherina, di una farfalla e di uno scorpione, di una rondine e di un serpente, di una rosa e di un ragno, fino all’opera finale, Ma una mascherina vi salverà?, nella quale le ciocche al vento dei capelli diventano all’estremità una sorta di rosso animale predatore, il drago cinese – nella rappresentazione che ce ne restituisce l’artista ci viene spontaneo dubitare del simbolo di pace e del carattere buono e nobile che quella consuetudine culturale assegna loro… Spira anche, in questa opera, la memoria della caravaggesca testa di Medusa con le serpi sibilanti della tradizione antica. Il titolo dell’ultima opera della serie ci svela che, nella sua indagine pittorica, Patrizia non si è rasserenata, non ha conquistato rassicurazioni, ma ha visto crescere inquietudini e domande senza risposta sull’origine dell’incubo, come se nel mondo albergassero malefiche forze oscure che possono colpire e stravolgere quella che era sembrata, almeno per un periodo, al declinare del millennio scorso, un’era avviata verso una globalizzazione pacificata, senza più conflitti – “la fine della storia”, aveva predetto Francis Fukuyama… 

Ciò che è certo è che queste opere di Patrizia Comand non sanciscono “la fine della pittura”, andando a inscriversi in una ormai lunga storia della rappresentazione di una maschera su un volto, da Peter Bruegel (Lotta tra Carnevale e Quaresima, 1559) a Antoine Watteau, Giandomenico Tiepolo e Pietro Longhi (l’indimenticabile Il rinoceronte, 1751), da Paul Cézanne a James Ensor (L’entrata di Cristo a Bruxelles, 1888, e L’intrigo, 1890), a Picasso (Pablo vestito da Arlecchino, 1924), fino a Frida Kahlo, alle maschere senza volto di de Chirico e a quelle veneziane che Romeo Costetti realizzava nei suoi monotipi degli anni Trenta, e ancora a varie esperienze contemporanee, come quella di Luigi Ontani, con le maschere che spesso coprivano il suo volto che s’ergeva sul corpo nudo. In verità, possiamo individuare nelle forme dipinte da Patrizia Comand un ulteriore tramando: quello dei busti marmorei, realizzati tra il Seicento e l’Ottocento, che si possono tra l’altro ammirare nella straordinaria collezione di Franco Maria Ricci al Labirinto della Masone di Fontanellato. La fissità della posa, tipica di quelle sculture, qui è andata perduta: le donne sono colte mentre muovono il loro sguardo, magari attratto da una vespa o da una coccinella impertinenti andatesi a posare sulla loro mascherina.

Nella cultura contemporanea, calata l’attenzione di bambini e adolescenti per il Carnevale e le sfilate del martedì grasso, è la tradizione, importata, di Halloween, con le sue maschere che suscitano paura, ad essersi affermata, assieme alla maschera inquietante di Anonymous – di cui anche oggi si continua a parlare per gli attacchi informatici – e a quella del pagliaccio malefico, il Joker di Batman, che da quando fu creato (1940) lotta contro il rappresentante del bene a Gotham City – memorabile ne è la riproposizione nel film recente (2019) di Todd Phillips, interpretato da Joaquin Phoenix. 

Al di là delle rappresentazioni della storia dell’arte, antichissima è la tradizione di utilizzo delle maschere, per assumere poteri straordinari, per propiziare buone stagioni e raccolti, per introiettare lo spirito e la forza di un animale o, ancora, come vere e proprie maschere funerarie destinate a tramandare le sembianze della persona che se n’è andata. Nelle rappresentazioni teatrali, dall’antica Grecia al periodo di pieno fulgore della “commedia dell’arte”, la maschera è stata un corredo essenziale sulle scene.

Le fogge fantasiose di “mascherine” immaginate da Patrizia Comand coprono le labbra e il naso, e non l’intero volto, e ciò dovrebbe rendere più agevole l’identificazione delle persone che le indossano e che incontriamo. Così non è: gli algoritmi utilizzati dall’US National Institute of Standards and Technology per arrivare a riconoscere i volti che portano una mascherina sono giunti alla conclusione che i margini di errore sono troppo alti. La mascherina, pur di dimensioni limitate, finisce per avere la stessa funzione di sviamento e occultamento dell’identità personale determinata dalla maschera – in verità, le tenaci, talvolta sgangherate, opposizioni all’utilizzo della mascherina nel corso della pandemia hanno avuto motivazioni del tutto ideologiche, e non certo legate all’esigenza di riaffermare un’identità che poteva risultare compromessa. 

Ritornando al carattere e al significato della maschera, si potrebbero citare molte incursioni, a partire dalla cultura e dalle esperienze di esplorazione dell’Io sviluppatesi nella Mitteleuropa dall’inizio del secolo scorso: le varie esperienze della psicoanalisi ci hanno rivelato che spesso siamo proprio noi a finire per costruire e indossare una maschera che sia espressione di un personaggio che in verità non siamo. Nel nostro Paese, la riflessione sul carattere della maschera ha frequentato i territori del “comico” – sempre rivelatore, come ci ha insegnato Emilio Tadini, del “tragico” –: pensiamo alla La maschera e il volto, commedia grottesca di Luigi Chiarelli rappresentata per la prima volta nel 1916 (e tradotta in un film di Camillo Mastrocinque nel 1942) e al film Ti conosco, mascherina! di Eduardo De Filippo (1943). Quando si parla della riflessione sulla “maschera”, si deve necessariamente ricordare Luigi Pirandello: nella sua opera c’è la rivelazione che si adotta una “maschera” nelle varie circostanze e vicende del vivere, per entrare in relazione con gli altri; ciò finisce per schermare l’identità autentica della persona, calibrandola sul contesto sociale e sulle circostanze. La “maschera” diventa uno strumento di difesa per potere schivare tutto ciò che potrebbe danneggiarci: di qui, l’inafferrabile, generale distinzione tra “essere e apparire”, e l’amara consapevolezza del “non riuscire ad essere”, come ci ha rivelato Thomas Bernhard ne Il soccombente. Più non si è una persona, ma una “figura”, un “personaggio” che erige una qualche barriera alla rivelazione di sé. Ecco perché, parafrasando il titolo dell’opera di Pirandello del 1926, la persona è contemporaneamente Uno, nessuno e centomila: la maschera ci consente di assumere identità diverse, talvolta false e fuorvianti, di condurre vite parallele, dentro una sorta di mistero che tutto avvolge. Uno specchio capace di andare oltre la pura riflessione delle sembianze che gli stanno davanti ci rivelerebbe che abbiamo finito per perdere la nostra vera identità.  

Nelle mascherine raffigurate da Patrizia Comand c’è spesso una sottile corrispondenza tra il carattere della persona che possiamo cogliere attraverso gli indizi rivelatori trasmessici da quel che resta del viso, dai bagliori degli occhi, dall’acconciatura e dal vestito, e dalla forma, spesso fantasiosa, del serto che ha adottato – che qui davvero finisce per, insieme, nascondere e rivelare. Queste sue mascherine più che uno strumento di difesa dal malefico, invisibile virus che ci ha assediato e che ancora naviga, invisibile, nell’aria che respiriamo, sono divertissement nati nel corso di una tragedia che ha colpito tutto il mondo, con un carico di morti e di angosce per il futuro che verrà: castigat ridendo mores è in fondo uno dei messaggi che ci affida Patrizia. E tuttavia queste sue opere sono anche portatrici di una riflessione sulla nostra identità; se la sua domanda finale è, come lo è, del tutto pertinente – “Ma una mascherina ci salverà?” –, c’è poco da stare allegri – torniamo all’inesorabile domanda biblica, cara a Giuseppe Dossetti, più che mai attuale in tempi di pandemia e di guerra: “Sentinella, quanto resta della notte?” Solo una lucida ironia, e un’umana pietà, potranno, forse, salvarci.


Sandro Parmiggiani

Nato a Bibbiano (Reggio Emilia) nel 1946, studia in Italia e negli USA. Critico e storico dell’arte, collaboratore di quotidiani e riviste (tra le quali “Il Giornale dell’Arte”), e autore di numerosi testi di presentazione di mostre, di saggi in volumi e di cataloghi ragionati (dedicati all’opera grafica di Enrico Della Torre, di Luca Leonelli, di Alberto Sughi e di Sergio Romiti, all’opera pittorica di Sergio Romiti e a quella scultorea di Piergiorgio Colombara), è stato, dall’apertura, nel 1997, al 2010, direttore di Palazzo Magnani a Reggio Emilia, dove ha organizzato mostre di pittura, scultura, fotografia, grafica e libri d’artista. È stato docente di Sistemi di gestione dell’arte contemporanea nel Corso di Laurea Magistrale in Economia e Gestione dei Beni Culturali e dello Spettacolo all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.